23 novembre 1980: quando chi decide commette errori…

Era domenica, non faceva freddo, proprio oggi son 40 anni.

Alle 19,35 la terra tremò come mai aveva fatto prima.

Casa mia, Marigliano, la Campania e la Basilicata furono colpiti da una scossa sismica il cui epicentro coincideva con una area a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza.

La magnitudo registrata fu del decimo grado della scala Mercalli, sì allora si utilizzava la scala Mercalli e solo dopo si passò a quella più precisa Richter: sarebbe stata del 7° grado.

Un’apocalisse, 300 mila sfollati e quasi 9mila vittime.

Ricordo ancora quei  100  interminabili secondi.

Un sibilo, uno stridio di ferraglia, un cupo ed impetuoso rumore sordo.

Il pavimento si allontanava, le pareti del corridoio si avvicinavano sino a toccarsi quasi.

Eravamo in tanti a casa: diversi amici erano venuti ad esprimere cordoglio a mio padre per la scomparsa del fratello, l’indimenticabile zio Ovidio, il medico.

D’un tratto il buio squarciato da lampi che solo dopo riconobbi essere i flash del contatto tra i due fili della elettrificazione dei binari della ferrovia dello Stato.

Un fuggi fuggi generale: i danni che non fece il terremoto li provocarono gli ignari che se la diedero a gambe. Quadri abbattuti, tavolini sfondati, porte a vetro divelte.

Un amico di mio padre, a quel tempo amministratore della città di Marigliano invocava la Madonnina, un altro provò a condurre in formato “trenino” tutti in salvo giù.

Sgomento, paura, incredulità e soprattutto il timore che la terra potesse ripetersi nei suoi esercizi di torsione.

Scesero tutti per istrada. Tutti, tutti.

Ricordo che mi precipitai nel vicinissimo palazzo Fusco di corso Umberto a casa di mio zio Pierino: erano scesi di corsa e temevano di aver lasciato la fiamma della cucina accesa.

Ancora penso al fiatone nel correre su al secondo piano a gambe levate: avevo appena 20 anni, spensi la fiammella e giù alla velocità del suono.

La ragione del fiatone era la paura più che la corsa…ovviamente.

Così cominciò anche per me, universitario a Roma, la stagione del “terremotato”.

Le squadre di soccorso fatte di migliaia di studenti male equipaggiati, giunti d’ogni parte d’Italia.

I ritardi nei soccorsi, l’appello del compianto presidente Pertini: “Fate presto”, la protezione civile da rifondare.

La prima norma sul servizio civile alternativo a quello militare.

Roma che si accorse dopo un giorno della portata immane della tragedia…

Furono anni difficili nei quali si scontavano ancora le nebbie delle stragi e  dei segreti di Stato, ma per me rimangono sempre come il discrimine tra due modelli di impegno politico, sicuramente più arrembante e predatorio da quegli anni in poi.

La spesa pubblica al Sud divenne occasione di sviluppo per recuperare gap infrastrutturali, ma anche cassa gestionale per alimentare carriere politiche e cordate professionali ed imprenditoriali.

Nemmeno l’imprenditoria familiare del Nord si sottrasse all’occasione predatoria di risorse che apparentemente avrebbero dovuto riscattare il Sud.

Blasonate industrie del settentrione che si insediavano nelle aree interne alimentando clientele e carrierismo per poi ripiegare appena le prebende si riducevano.

Aree industriali abbarbicate su paeselli e borghi quasi irraggiungibili su gomma, nemmeno a pensarci al trasporto su ferro: ma i pingui investimenti giustificavano sperperi e finzioni.

Quando la politica incide devastando le dinamiche sociali e distorcendo i contesti urbanistici e rurali: la Regione Campania decide di deportare più o meno 10mila nuclei familiari da Napoli in 16 comparti denominati 219 come la legge sciagurata che li istituì.

Uno straordinario errore urbanistico, sociale, culturale, semplicemente politico.

Ben presto divennero 16 aree del non luogo, enclavi del disagio e delle violenze, delle prevaricazioni e della invisibilità.

Colpa di chi lì abita? Troppo facile attribuire la responsabilità a chi ha quella sfortuna e magari viveva della sua micro economia ed è stato trasferito senza un criterio, senza una speranza, senza una dinamica positiva di tipo aggregativo.

Alcuni sindaci si rifiutarono di accogliere questo “dono” (Mariglianella mio zio Ubaldo) e la violenta mano degli affari e della politica lo punirono trasferendo la fermata della Circum in territorio di Marigliano. Sì, perché con quella vergognosa norma, la legge 219, si provvide anche a raddoppiare la linea della Circumvesuviana spostandola in periferia.

In genere si fa il contrario i sistemi di trasporto devono raggiungere il centro delle città, nel nostro caso non accadde. Le fermate si allontanarono dal centro.

Allora comandava una trimurti di politici potenti davvero ed a nulla valsero le nostre battaglie per mantenere il vecchio tracciato della Circum…

Quella tragedia ci consegnò una società più arrogante e meno rispettosa dell’individuo, la legislazione straordinaria e speciale fece il resto alimentando come è stato sancito da sentenze passate in giudicato greppie affaristiche e criminali: un nuovo patto scellerato tra politica e camorra. Spartizioni che riguardarono i lavori e le opere pubbliche.

Oggi forse è giunto il momento di ripensare a quegli insediamenti abitativi provando a demolire quelle strutture che mai sarebbero dovute essere definitive e disegnare modelli di integrazione a più basso impatto.

Il post Covid ci dovrà far pensare una nuova sanità, ma anche un nuovo modello di città, più integrata , più vivibile, più verde, più smart e soprattutto digitale.

Paolo Russo

Responsabile per il Mezzogiorno nella Segreteria Nazionale di Azione – medico – scrittore

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