Fuoco di paglia
Non vorrei buttarla tutta in politichese, ma una riflessione serena sui campionati di calcio italiani ci porta diritto diritto verso una più ampia considerazione sul tessuto sociale e produttivo delle varie aree del nostro Paese, sulla capacità manageriale delle nostre aziende e sulla struttura delle stesse…
Nella scorsa stagione agonistica abbiamo celebrato una sorta di riscatto delle squadre da Roma in giù, come se fosse il successo del Sud di fronte al declino di una prevalenza geografica settentrionale che nel campionato italiano durava da oltre cent’anni.
Insomma troppi commentatori furono fallaci profeti di un nuovo ordine nazionale nelle gerarchie calcistiche.
In realtà la storia ci ha raccontato una verità diversa: una circostanza condita di fortune (quale successo è privo di buona sorte?) ha reso il Napoli campione d’Italia con 16 punti di vantaggio sulla seconda, la Lazio, e ben distanziate Inter, Milan ed Atalanta rispettivamente a 18, 20 e 26 punti. La Roma subito dietro.
Stessa storia nel campionato di serie B dove prevalse il Frosinone e subito dietro Genoa, Bari, Parma e Cagliari.
Insomma avevamo pensato che, almeno nel calcio, si fosse raggiunta una sorta di parità.
Nulla di più falso. Quei successi andavano corroborati da modelli organizzativi che avrebbero dovuto stabilizzare i risultati e garantire una continuità sul piano societario, sociale ed anche organizzativo.
Ci si è invece affidati al taumaturgico ed effimero potere di singoli, presuntivamente illuminati (in realtà era una luce riflessa e fatua di contingenze e talune eccellenze, nulla di ripetibile tout court).
I risultati di questa stagione parlano chiaro: il Napoli spiaggiato verso la parte bassa della metà classifica, fuori dall’Europa che conta, la Lazio pure e la sola Roma mantiene il vessillo delle squadre del Sud a ben 27 punti dalla vetta.
Insomma un disastro che va sommato al campionato di serie B: il solo Catanzaro veleggia verso l’alto, ma è quinto, a 13 punti dalla prima.
Lo scorso campionato Frosinone, Bari e Cagliari erano tra le prime 5.
Insomma la lezione è chiara: si può vincere un campionato, si può misurare una performance di successo, ma se non si costruiscono società solide con strategie definite e non predatorie, con ruoli certi e chiari, con professionisti riconosciuti ed indipendenti, il fuoco delle vittorie rimane di paglia spegnendosi ben presto di fronte ad una realtà fatta di squadre, talvolta anche meno forti, ma più strutturate.
Allora quel ciclo agognato avrebbe potuto avere un senso solo se si fossero cancellate quelle figure un po’ mitologiche e tanto naïf di presidenti padroni che, per giustificare compensi milionari, si attribuiscono competenze tecniche, tattiche, gestionali e talvolta anche divinatorie.
In realtà al Napoli serve un direttore sportivo in sintonia con un allenatore che abbiano autonomia di gestione e di scelta, fisioterapisti e preparatori atletici che non si lascino condizionare dalle esigenze societarie.
Tutto da rifare? Certo, ci valga da esperienza e si riparta dalla dignitosa posizione assunta dalla Società Calcio Napoli in tema di lotta al razzismo: una cosa buona, spero non casualmente, pur l’abbiamo fatta
Politico – medico – scrittore