Conti pubblici, fisco e le proposte per la ripartenza. Flat tax: costi e coperture della tassa piatta


In ogni campagna elettorale rispunta puntualmente il taglio delle tasse, bandiera storica del centrodestra. E così, anche per questa tornata elettorale, i partiti della coalizione rispolverano il vecchio cavallo di battaglia della flat tax. La proposta di introdurre un’aliquota fissa per tutti i contribuenti risale al 1994, quando Silvio Berlusconi promise in campagna elettorale l’adozione di una flat tax al 33%. Oggi, nonostante la situazione dei conti pubblici sia nettamente peggiorata rispetto all’epoca, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega propongono l’introduzione di un’aliquota fissa rispettivamente al 23% e al 15%. A riguardo, una delle principali critiche provenienti dal centrosinistra è legata all’incostituzionalità della flat tax, sostenendo che la sua applicazione sia in contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 53 della costituzione. In realtà, tale articolo non impone che il singolo tributo debba essere progressivo, ma piuttosto che il sistema fiscale nel suo complesso sia progressivo. Infatti, se così non fosse, anche altri tributi sarebbero incostituzionali come l’iva o l’accisa sulla benzina. Inoltre, la flat tax proposta dal centrodestra prevede dei meccanismi di deduzione e una “no tax area”, ossia una soglia di reddito entro la quale non si pagano imposte per aiutare le famiglie più povere, che rendono di per sé il sistema fiscale progressivo, sebbene nettamente meno rispetto all’attuale sistema Irpef.
Fatta chiarezza sulla compatibilità della proposta del centrodestra con i principi costituzionali, vanno tuttavia analizzati la sua efficacia e l’impatto sui conti pubblici. Il costo della flat tax non è ancora ben chiaro, dal momento che le forze del centrodestra non hanno reso noto informazioni a riguardo nè sulle coperture di tale misura. Uno studio de “Il sole 24 ore” ha messo in evidenza che il costo di una singola aliquota fiscale al 23% a tutti i livelli di reddito sarebbe da quantificare intorno ai 30 miliardi di euro, mentre la flat tax più generosa al 15%, fortemente voluta dalla Lega, costerebbe circa 50 miliardi. Il consigliere economico del Carroccio, Armando Siri, ha recentemente parlato di un costo non superiore ai 20 miliardi, facendo tuttavia riferimento esclusivamente alla fase uno del progetto della flat tax, già avvenuta con la legge di Bilancio del 2019 che ha introdotto la prima tassa piatta per le partite iva con redditi inferiori a 65mila euro l’anno. Nessun riferimento invece alle altre due fasi che prevedono di estendere l’aliquota unica a tutti i contribuenti, i cui costi, secondo le stime dell’ex presidente dell’Inps, Tito Boeri, raggiungerebbero gli 80 miliardi di euro, che verrebbero recuperati attraverso un aumento del debito e tagli alla spesa pubblica. Ciononostante la Lega, come il resto del centrodestra, non pare preoccupata dell’impatto della flat tax sui conti pubblici; infatti, come ha sostenuto l’architetto del progetto, Armando Siri, la flat tax si autofinanzierebbe e, dunque, il gettito fiscale che lo stato perderebbe per finanziare la misura sarebbe compensato dal recupero in termini di una minore evasione fiscale. Tale idea si basa sulla cosiddetta curva di Laffer, che mette in relazione l’aliquota di imposta con le entrate fiscali. Essa fu ideata da Arthur Laffer, economista dell’University of Southern California, che secondo la leggenda espose la sua teoria su un fazzoletto di carta per convincere l’allora candidato repubblicano Ronald Reagan a diminuire le imposte dirette. In sostanza, la curva di Laffer ipotizza che se lo stato ponesse a 0 l’aliquota fiscale (ossia non ci fossero tasse), ovviamente non avrebbe alcuna entrata. Viceversa, se l’aliquota fosse pari al 100% del reddito, anche in questo caso il gettito sarebbe pari a 0, perché nessuno pagherebbe le tasse sapendo che il proprio reddito sarebbe interamente prelevato dallo stato. Dunque, Laffer ipotizzò l’esistenza di un’aliquota fiscale ottimale, rappresentata dall’ascissa del punto più alto della curva a forma di campana, che massimizzi il livello di gettito per lo stato. Dopo questo punto, un aumento delle tasse corrisponderebbe a una diminuzione delle entrate fiscali legato a fenomeni di evasione, elusione e sottrazione. Da qui l’idea secondo la quale diminuire le tasse comporta una riduzione dell’evasione. Tale teoria è stata soggetta a diverse critiche e ha riscontrato risultati scarsi nella realtà; in particolare due economisti, Mathias Trabandt e Harald Uhlig, hanno condotto alcune analisi quantitative per capire in quale punto della curva si trovano gli Stati Uniti e vari paesi Europei, tra cui l’Italia. Dal modello emerge che nella maggior parte dei paesi presi in esame, tra cui figura l’Italia, l’attuale tassazione sul lavoro è largamente inferiore al punto ottimale ipotizzato da Laffer che massimizzerebbe le entrate fiscali. In via definitiva, il modello dimostra che sebbene la pressione fiscale in Italia sia tra le più alte in Europa, questa ci colloca comunque nella sezione sinistra della curva di Laffer, quella in cui un taglio delle tasse non si potrebbe autofinanziare.
Inoltre, un recente studio dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani ha analizzato l’impatto che ha avuto la flat tax nei paesi d’Europa in cui è stata adottata. In particolare, la tassa piatta esiste solo nei paesi dell’Est, dove in seguito alla caduta dell’Urss era indispensabile per gli stati dell’ex regime comunista un nuovo sistema fiscale che fosse predisposto in tempi brevi e che fosse compatibile con un’economia di mercato. Per tale ragione fu adottato un sistema fiscale caratterizzato da un’unica aliquota, come quello impiegato dall’Urss prima della sua caduta. In seguito molti paesi l’hanno abbandonato in favore di un sistema a più scaglioni (Serbia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Albania, Lettonia, Lituania e la Macedonia, che il primo gennaio 2023 passerà a un sistema fiscale basato su due aliquote). Dunque, sono attualmente 8 su 43 i paesi europei che hanno in vigore un sistema di tassazione piatta. Tra questi, l’unico in cui si sono registrati effetti positivi sembra essere la Russia, che nel 2001 è passata da un sistema fondato su tre scaglioni (12%-20%-30%) a uno basato su un’unica aliquota al 13%. Tuttavia, la crescita economica era iniziata ben prima della riforma del sistema fiscale e fu probabilmente causata dall’aumento del prezzo degli idrocarburi. Al contrario, l’analisi mette in luce che dopo l’introduzione della flat tax il tasso di crescita del Pil si dimezzò rispetto agli anni precedenti. Infine, uno studio del Fondo Monetario Internazionale (IMF Working Paper, 2005) conclude sostenendo che l’introduzione di una flat tax non abbia effetti rilevanti sull’offerta di lavoro né sulla crescita aggregata e dunque è da escludere che la riforma possa autofinanziarsi, come è invece sostenuto dagli esponenti del centrodestra.

Gianmarco Accardo

L'ora di Economia

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