L’Economia, il futuro: 20 anni di euro, quella sfida incompiuta

Il primo gennaio 2002 l’euro approdò per la prima volta nel Vecchio continente. Il percorso che portò all’adozione della moneta unica fu tracciato dal trattato di Maastricht, siglato il 7 febbraio 1992, che definì i parametri economici e sociali necessari per l’ingresso dei vari Stati aderenti nell’Unione, ossia il rapporto tra deficit e PIL non superiore al 3%, il rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60%, il tasso d’inflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi, il tasso d’interesse a lungo termine non superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi e la permanenza negli ultimi due anni nel Sistema Monetario Europeo senza fluttuazioni della moneta nazionale. I parametri imposti furono particolarmente rigidi e tutt’oggi non sono rispettati da molti paesi che da tempo ne richiedono una revisione, assieme al Patto di stabilità e crescita, stipulato con l’obiettivo di mantenere saldi i requisiti e rafforzare il percorso d’integrazione monetaria intrapreso con il trattato di Maastricht. Basti pensare che secondo il report dell’istituto europeo di statistica nell’intera Unione europea il rapporto deficit/Pil è passato dallo 0,5% del 2019 al 6,9% del 2020 (sforando il tetto del 3% previso nel trattato di Maastricht), mentre il debito medio dei paesi euro è cresciuto dall’83 al 97%, con l’Italia che ha raggiunto quota 154,6% (oltrepassando il limite originariamente previsto del 60%).


Nel 1994 l’Istituto monetario europeo (IME) avviò i lavori per consentire l’operatività della Banca centrale europea, a cui veniva affidata la detenzione della politica monetaria dell’Eurozona. Il 1º gennaio 1999 fu introdotto l’Euro, entrando in circolazione ufficialmente in undici Stati membri nel 2002: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna e Portogallo. Il nome “Euro” è stato scelto dal Consiglio europeo di Madrid del 1995, mentre il simbolo dell’euro (€) si ispira alla lettera greca epsilon, oltre a rappresentare la prima lettera della parola “Europa”, con le due barre parallele che conferiscono stabilità.
Quella dell’euro è stata tuttavia una storia contrassegnata dalle crisi. Nel 2008, lo scoppio della bolla immobiliare e il fallimento del colosso bancario americano Lehman Brothers segnarono il più buio momento della storia della moneta. Il sistema bancario europeo stentava a reggere la grossa mole di crediti deteriorati, che in Italia vennero a quadruplicarsi tra il 2008 e il 2015 (da 87 a 341 miliardi di euro). Al contempo gli elevati debiti pubblici dei paesi mediterranei innescarono una seconda crisi che minacciava la sopravvivenza della moneta unica, venendosi ad alimentare l’idea sempre più concreta agli occhi dei mercati di un fallimento a catena dei paesi dell’eurozona e, dunque, la fine dell’euro. Fu l’allora presidente della Bce, Mario Draghi, a traghettare l’Europa fuori dalla tempesta. Con il suo discorso alla UKTI’s Global Investment Conference di Londra il 26 luglio 2012, scacciò la marea speculativa che si abbatteva sull’euro: «La Bce è pronta a fare tutto ciò che è necessario per preservare l’euro. E, credetemi, sarà abbastanza». Whatever it takes furono le tre parole che salvarono l’euro, oggi considerate il simbolo della presidenza di Draghi e in generale della politica economica degli anni successivi a sostegno dei paesi dell’eurozona, rappresentando il segnale che la Bce sarebbe diventata un prestatore di ultima istanza e superando gli scetticismi dei paesi nordici, ancora oggi avversi all’espansionismo monetario in favore del rigore economico, che rallentarono l’azione della banca centrale.


Il secondo punto che ha scosso la travagliata storia della moneta europea è sancito dalla pandemia. Con la scoperta dei primi casi di Covid-19 in Italia lo spread, indice della paura e della diffidenza dei mercati nei confronti di un paese, aumentò rapidamente (da 130 a 239 punti in un solo mese) e si intensificò il rischio di una nuova crisi dei debiti sovrani, alimentata anche dall’ostilità dei cosiddetti paesi frugali, avversi alle politiche europee comuni in aiuto degli stati più colpiti dalla pandemia, tra cui l’Italia stessa. “La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita”, diceva Cicerone. E infatti, la mattina del 21 luglio 2020 i leader europei, dopo cinque giorni di lunghe trattative, trovano l’accordo sul Recovery fund, il piano straordinario di stimolo da 750 miliardi di euro, che prefigura l’inizio di una politica fiscale europea e la caduta delle ostilità dei frugali.
Vent’anni rappresentano un tempo di vita breve per una moneta, nondimeno abbastanza significativo affinché si possano delineare concretamente vantaggi e svantaggi. Tra i contro si annoverano l’impossibilità di svalutare la valuta per favorire il commercio estero e dunque le esportazioni delle aziende nazionali, dato il mandato della Bce di perseguire un obiettivo di inflazione simmetrico del 2% nel medio termine. Inoltre l’euro è indebolito da unione monetaria incompleta, venendo a mancare, ad esempio, l’unione fiscale e l’unione bancaria, solo di recente intrapresa ma non ancora portata a termine. A riguardo, manca tuttora uno schema unico di assicurazione dei depositi che assicuri ai depositanti una garanzia fino a 100.000 euro, aiutando a prevenire la fuga di capitali in caso di una grave crisi bancaria. Da un’analisi della Commissione europea è emerso che si ridurrebbe della metà la probabilità di mancanza di liquidità per proteggere i clienti delle banche in una nuova crisi finanziaria se l’Ue completasse l’unione bancaria con un sistema europeo di garanzia dei depositi. La strada da percorrere è ancora lunga e le divergenze di veduta sono ampie. La Germania vuole che le banche europee siano meno esposte all’insolvenza. Ciò si traduce in una riduzione dei crediti deteriorati e dell’esposizione verso i rispettivi paesi in cui operano, in modo da limitare le perdite. Una soluzione difficile da attuare per l’Italia e i paesi del Sud Europa che ottengono molti finanziamenti tramite le banche.


Dall’altro lato l’introduzione della moneta unica ha portato molti benefici ai cittadini europei, come la possibilità di viaggiare senza dover effettuare il cambio valuta, oltre che inflazione e tassi di interesse molto più bassi, che comportano sostanziali vantaggi in termini di stabilità dei prezzi e, ad esempio, di costo dei mutui. Infatti, per acquistare una casa in Italia il prezzo di un prestito erogato da una banca era superiore al 10% nel 1995, mentre oggi si attesta all’1,43%. Un grande beneficio per chi vuole accedere a un prestito, dal singolo cittadino fino ai debitori più grandi, come lo stesso stato italiano. Infine, dal punto di vista geopolitico solo un’Europa unita e coesa potrà affrontare in maniera efficace le nuove sfide economiche, sociali e ambientali riguardo le quali non di rado emergono differenze di veduta con le altre grandi potenze.
In conclusione, come sostiene Pier Carlo Padoan, ex ministro dell’economia, si tratta di un processo che, nonostante i benefici apportati, è tutt’oggi incompleto, venendo a mancare in linea generale una costruzione politica dell’Unione europea, intesa come unione monetaria e politiche fiscali comuni. Tuttavia, senza la moneta unica e il processo di integrazione europea, sostiene Padoan, l’Europa sarebbe andata incontro a un destino di disgregazione, divergenza e, forse, anche di conflitto.

Gianmarco Accardo

L'ora di Economia

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